
I colloqui sono cambiati molto nel tempo. Avere una laurea, se non certamente per alcuni lavori, non è più così essenziale e le scelte dei ragazzi sono diverse. Ricordi le parole dei ragazzi di OSM BLT? In quell’intervista Noemi Ciciriello raccontava che, quando è entrata a far parte di OSM, non conosceva la maggior parte delle nozioni tecniche del lavoro. “Qualsiasi termine tecnico può far paura!” spiegava Noemi “A me all’inizio spaventava la parola partita iva, quindi vi posso assicurare che se ce l’ho fatta io, ce la possono fare tutti!”. Noemi è l’esempio del fatto che non servono anni e anni di studio e di gavetta per poter raggiungere grandi traguardi. Il successo è determinato molto più dalle attitudini, dall’atteggiamento della persona e anche dal modo con cui l’azienda gestisce le risorse umane.
Insomma, tutto è cambiato ed è importante tenersi sempre aggiornati. Ho parlato di questo argomento con Samantha Marzullo, regina del recruiting e di gestione delle risorse umane. La sua vision è quella di permettere alle aziende di diventare il luogo in cui ogni collaboratore può realizzarsi. Samantha ci insegna che la persona giusta reclutata al momento giusto può cambiare completamente il futuro della tua azienda, per questo è fondamentale conoscere sempre tutte le novità che riguardano la selezione.
In passato se un ragazzo cambiava più volte lavoro era visto come una persona instabile. Il cambiamento non era qualcosa di positivo. Secondo te adesso le cose sono cambiate?
Soprattutto negli ultimi anni il cambiamento è stato pazzesco un po’ in tutte le fasce d’età, ma soprattutto nelle nuove generazioni. Fino a qualche anno fa una persona era stabile nell’azienda solo se, all’interno di essa, aveva lavorato almeno un paio di anni. Ora le regole sono cambiate, ma, nonostante ciò, ci sono ancora i recruiter old style (spesso di generazione X) che selezionano le nuove generazioni sulla base dei vecchi parametri. Ecco perché si è creato un enorme divario tra candidati e aziende, perché nel mezzo c’è qualcuno che non accetta il cambiamento e che continua ad utilizzare le vecchie regole.
Quindi sì, ad oggi i ragazzi cambiano molto più velocemente. Questo perché le generazioni passate (quindi i baby boomer, la generazione X e anche un po’ i millennials) hanno vissuto il lavoro, soprattutto durante i primi anni, come una palestra, un sacrificio. Insomma, la famosa gavetta. Questo significava dover sottostare a qualsiasi regola, stare in un ambiente magari non ottimale e con un clima per niente bello. Tutto ciò veniva però accettato dal ragazzo perché “era la sua prima esperienza e doveva farsi le ossa”. Alla base c’era l’idea che la vera vita fosse al di fuori dell’azienda e che all’interno di essa si dovesse solo lavorare, niente di più.
Le nuove generazioni, invece, intendono l’azienda come una famiglia, come luogo di condivisione. Quindi, se in un annuncio, in un video o in un colloquio di lavoro, racconti di un’azienda meravigliosa, dove le persone sono unite e si aiutano, ma in realtà il clima è completamente diverso, i giovani ci mettono due minuti a decidere di andarsene.
Questo perché non esiste più il concetto di “vado a lavorare e mi sacrifico perché so che poi in futuro la situazione cambierà”. No, la vita è oggi! I ragazzi vogliono lavorare con le persone e se le voglio scegliere. Se qualcosa non li fa stare bene, non esitano a cambiare la loro condizione per migliorarla.
Infatti, penso che il curriculum andrebbe visto come semplice traccia rispetto al passato. Non si può decidere il futuro di una persona sulla base del suo passato, perché non sempre è possibile sapere i motivi delle sue scelte. Bisognerebbe dare la possibilità a tutti di potersi realizzare, in qualsiasi contesto. Per questo un recruiter deve scegliere le persone, non il loro ruolo o l’esperienza del passato. Deve piacergli la persona ed essere disposto a costruire qualcosa con questa.
Questa differenza tra passato e presente porta ad un cambio di comunicazione tra le generazioni. Perciò spesso ci convinciamo quando sentiamo dire: “i giovani non hanno voglia di lavorare”, ma non consideriamo che, dall’altra parte, c’è un ragazzo che non si sente capito. Bisognerebbe creare un ponte, unire di nuovo queste due parti importanti del mondo del lavoro.
Quindi, se vedo che un gen z ha cambiato diverse volte posto di lavoro o mansione, analizzo la situazione. Ovvio che, se una persona ha cambiato in un anno dieci posti di lavoro, qualche domanda me la pongo. Però mi chiedo: “Cosa stava cercando quel ragazzo che non ha trovato?”, magari noi possiamo dargli una mano. Forse ha solo bisogno di essere aiutato a comprendere quale sia la sua strada. Perciò, alla fine, non è nemmeno più un colloquio di lavoro, ma, piuttosto, un colloquio di orientamento per fargli comprendere che sono tante le possibilità adatte a lui.
Come dice Samantha, in questi casi bisognerebbe analizzare la situazione. Sono d’accordo sul fatto che il cambiamento, al giorno d’oggi, non può essere sempre visto come qualcosa di sbagliato. La generazione Z, diversamente dalle altre, è molto attenta all’ascolto del proprio benessere. Perciò è importante considerare che ogni scelta che un ragazzo prende, la prende per la sua autonomia e per la sua felicità. Cambiare non è facile, perché significa renderci conto che il luogo in cui stiamo non è il nostro e, soprattutto, accettarlo. A volte significa dover sconvolgere le nostre abitudini oppure dover reimparare una mansione da capo. Significa sentirci inadatti, come se avessimo fallito nella scelta di questo lavoro.
Il cambiamento può quindi essere anche un modo con il quale il giovane non si accontenta e non affronta la sua vita passivamente, ma lotta e cerca finché non trova il suo posto nel mondo.
Prima il lavoro era anche sacrificio, ora è inteso in modo molto diverso. L’idea della gavetta di cui parlavamo prima, per esempio, ormai non esiste più. Perché pensi ci sia stato questo grande cambio di visione tra le generazioni?
I millennials si trovano nel mezzo, è dalla loro generazione che è iniziato il cambio radicale nel mondo del lavoro. I baby boomers e la generazione X hanno sacrificato tanto della loro vita privata per il lavoro e per garantire stabilità alla famiglia. Quindi, a volte, è mancata ai loro figli (millennials e generazione Z) la presenza di un genitore. Questo ha portato le nuove generazioni a desiderare di essere diverse e a voler far vivere ai figli una realtà differente. È stato proprio un cambio di tipo culturale.
Poi un altro tema è quello del tempo: in passato le persone venivano valutate per le ore che passavano in un posto di lavoro con l’idea che più ore lavoravano, più erano brave e meritavano promozioni. Questo accadeva tanti anni fa. Oggi, invece, si lavora per obiettivi e quindi più tempo impieghi a lavorare e peggio è, perché significa che, nonostante passi le ore in azienda, nel pratico non stai facendo nulla.
Il tempo è prezioso per tutti e le nuove generazioni ci tengono molto ad utilizzarlo anche per coltivare passioni o per viaggiare. Il fatto che un collaboratore, invece di passare tutte le sue giornate in azienda, dedichi anche del tempo, per esempio, ad un viaggio, non dovrebbe essere visto come qualcosa di brutto. Ogni volta che torniamo da una vacanza siamo diversi, perché un viaggio, alla fine, è una scoperta di sé e ci fa acquisire nuove consapevolezze che ci aiuteranno ad essere ancora più centrati sul lavoro. Quindi dovremmo incentivare i nostri collaboratori a coltivare tempo di qualità al di fuori dell’azienda, perché è anche grazie a questi momenti di svago che un ragazzo poi riesce a dare il meglio di sé a livello lavorativo.
Che consiglio daresti a un imprenditore che fa fatica ad attrarre o gestire i giovani?
Secondo me gli imprenditori dovrebbero eliminare tutte le sovrastrutture che hanno sulle varie generazioni. L’incomprensione da parte di una generazione verso l’altra è normale, è così da sempre. È necessario però rimuovere tutti questi preconcetti e cancellarsi dalla testa l’idea che la propria generazione sia migliore delle altre.
Gli imprenditori devono sempre interessarsi alla persona che hanno davanti, a prescindere dalla sua generazione, ascoltarla davvero e vedere l’infinita bellezza che ha dentro, perché tutti l’abbiamo. A volte, quando un giovane non sta performando, potrebbe star solo cercando, in un modo differente, di chiedere aiuto, o magari ha bisogno di attenzioni. Quindi è importante mettere sempre al centro il ragazzo come persona ed evitare qualsiasi tipo di pregiudizio riguardo, per esempio, la sua generazione.
Un’altra cosa che a mio parere è fondamentale e che l’imprenditore dovrebbe assolutamente assicurare è il divertimento.
Tante aziende oggi fanno fatica a trovare persone perché, in fondo, al loro interno non ci si diverte davvero e il primo a non divertirsi forse è proprio l’imprenditore. Prima ricomincia a divertirsi come quando ha deciso di aprire quell’azienda anni fa e prima riesce a trasmettere all’esterno quanto è bello stare lì. Se ci si diverte è come se non si stesse più lavorando e quindi non è più un lavoro, ma una vera e propria missione, uno scopo molto più elevato.
Lo stare insieme, la condivisione e il divertimento non devono mai mancare, ma, attenzione, non dev’essere qualcosa a comando, del tipo: “è arrivato il giorno in cui ci dobbiamo divertire, organizziamo un team building così ci divertiamo e postiamo delle foto”, NO! Dev’essere parte integrante: devono esserci feste, scherzi, spazi dedicati al gioco (io, per esempio, ho il tavolo da ping pong), compleanni, bisogna elogiare le persone e festeggiarle. E, vedi, alla fine, alla base di tutto, c’è sempre la condivisione.
Quando nell’azienda si condividono momenti insieme e ci si diverte, i collaboratori sono felici e si sentono liberi di poter esprimere sé stessi. Solo a questo punto tu, imprenditore, riuscirai ad attirare nuove persone.
Purtroppo, vedo ancora alcune aziende in cui si indossa una divisa, ma non parlo di quella fisica, intendo proprio che ci sono delle forti limitazioni. A volte sento ancora che in alcuni posti di lavoro ci si dà del lei. Penso che più distanza un imprenditore mette tra sé e gli altri, tanto più difficile sarà attrarre le nuove generazioni.
Quindi come può connettersi un titolare di un’azienda con i suoi collaboratori giovani? Con la condivisione, ascoltando il loro punto di vista, coinvolgendoli sempre (anche quando non conoscono tecnicamente la materia, possono sempre dare grandi idee) e poi scherzando, perché se ci prendiamo sempre sul serio diventa tutto troppo pesante.
Spesso si sente dire che la generazione z pretende troppo, che non vuole lavorare troppe ore, che vuole essere pagata anche quando non ha esperienza, che non vuole stare in azienda dopo un certo orario… Secondo te è vero che i giovani hanno molte richieste?
Secondo me questo discorso ha sempre a che fare con il coinvolgimento. I ragazzi che lavorano con me lavorano davvero tanto. E cosa li porta a lavorare? Magari il fatto di passare tempo insieme, di condividere qualcosa di molto più elevato e quindi di sentirsi coinvolti nel progetto aziendale. Se una persona non si sente coinvolta e non le piace così tanto quello che fa o l’ambiente in cui si trova, le peserà sicuramente anche l’orario di lavoro.
Poi tendenzialmente è vero che nella generazione z ci sono molte più persone predisposte ad aprire la partita iva e quindi a stare ai propri orari e ad avere più elasticità in certi sensi. Ho visto meno questo desiderio nelle precedenti generazioni, dunque c’è proprio una voglia di creare qualcosa per sé. Noto un grande entusiasmo di ragazzi che, nonostante non abbiano alcun tipo di esperienza, si lanciano e aprono una partita iva senza timore, a differenza delle vecchie generazioni che ci riflettevano molto di più. E forse lo fanno perché credono nelle proprie potenzialità. Oggi un gen z vive a stretto contatto con i social network ed è come un marketer di sé stesso. Perciò è anche più possibile per lui l’idea di creare un’azienda. Non è sicuramente un problema per lui lavorare con la partita iva, perché tanto è abituato a lavorare per obiettivi.
Cosa ne pensi riguardo allo smart working? È molto richiesto dai giovani?
Sì, viene spesso richiesto. Il desiderio di smart working, non sempre, ma a volte, è un segnale, significa che il clima aziendale andrebbe migliorato. Poi non è detto, ci sono altre mille variabili, per esempio chi vive in una grande città e impiega molto tempo per arrivare all’ufficio, allora potrebbe considerare lo smart working in modo da poter anche lavorare di più. In alcuni contesti il lavoro da remoto è dunque una scelta importante per ottimizzare la qualità di vita di una persona.
Alla base dello smart working, a mio parere, dev’esserci sempre, come in ogni cosa, la libertà: dai ai ragazzi la possibilità di scegliere. Quando le persone hanno la libertà di essere e di esprimere se stesse e ciò che preferiscono, sceglieranno tutte di venire in azienda. Lo faranno per la condivisione, per imparare in compagnia, per sentirsi coinvolte e parte di un gruppo, per osservare, per crescere. È la verità, più regole e paletti l’imprenditore mette, più costringe i ragazzi a fare e a pensare l’opposto. Così questi iniziano a non voler fare le cose. Lascia libertà e vedrai che verranno tutti da te!
L’intervista a Samantha mi ha fatto riflettere su alcune cose, per esempio sull’importanza del cambiamento, tanto duro quanto, certe volte, necessario per il proprio benessere. Samantha ha spiegato bene anche l’importanza del coinvolgimento e della condivisione, due aspetti fondamentali affinché a una persona piaccia il suo lavoro. Ciò che infatti differenzia un lavoro triste da uno fantastico non è tanto il lavoro in sé, che può sempre essere imparato anche in un ambiente non ottimale, ma ciò che lo circonda. Sto parlando delle persone, dai responsabili ai collaboratori. Sentirsi parte di un gruppo, e quindi venire coinvolto e passare tempo insieme a persone che condividono i tuoi stessi ideali, alzerà notevolmente la tua carica, ti riempirà di energia e, inevitabilmente, ti renderà molto più produttivo.
Quindi, cosa aspetti ad applicare le tre C???