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Iraq: sguardo sul gioco di potere

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Immagina di essere svegliato nel cuore della notte da una pioggia violenta di fuoco, tanto rumorosa da renderti quasi sordo e da scuotere la terra. Immagina di uscire per strada stringendo a te i tuoi figli, nella speranza che quell’abbraccio sia sufficiente a tenerli al sicuro.


La sensazione di sgomento descritta è solo un esempio di cosa molti iracheni hanno sperimentato la notte del 20 marzo 2003, quando iniziò l’invasione americana dell’Iraq, intimando a Saddam Hussein che era arrivata ora di lasciare la guida del paese.


Sulla vicenda si potrebbe davvero scrivere tanto e le informazioni in merito sono numerose, così tante da creare un intreccio complicato di cause ed effetto, ecco perché l’obiettivo di questo articolo è dare gli spunti chiave al lettore affinché questi possa orientarsi nella vicenda e farsi autonomamente delle domande.


Partiamo dal principio.
Già dagli anni ottanta, con la prima guerra del Golfo, l’oriente sperimentò le conseguenze dell’ambizione del potere e dalle questioni territoriali. In questi primi anni, tramite lo scontro tra Iran e Iraq, gli equilibri si alterarono. Va sottolineato che l’Iraq ricevette sostegni sia dal versante americano che da quello socialista, oltre che da Gran Bretagna, Francia, Germania, Egitto, Kuwait, Arabia Saudita, Giordania ed Emirati Arabi Uniti. Come leader, Saddam Hussein faceva comodo a molti sullo scenario mondiale, fungendo da contrappeso contro il potere dell’Iran, un po’ come su una bilancia a due braccia.


Hussein al potere ebbe modo di svolgere il suo ruolo di comodo finché non risultò egli stesso un pezzo pericoloso della scacchiera. Le ambizioni del dittatore iracheno si riversarono sul Kuwait non appena terminato lo straziante conflitto con l’Iran, rivendicando la proprietà di territori ricchi di pozzi di petrolio. Le truppe irachene, iniziando l’invasione del Kuwait, subirono tempestivamente la risposta sia delle Nazioni Unite che degli USA (militarmente parlando). Reazione inaspettata per gli iracheni, inizialmente sicuri che gli Stati Uniti non sarebbero intervenuti, date le politiche filosovietiche del Kuwait.


Si può notare la prima chiave della storia: stiamo parlando di conflitti tra alcuni dei paesi con maggiori riserve di petrolio al mondo. Quando si parla di scalare la vetta nel controllo delle risorse dell’oro nero (e non solo) e diventare arbitri di un mercato così forte, la dinamica si trasforma in quella di un branco di pesci affamati che si gettando sull’unica mollica di pane in tutto l’acquario. Tutti pronti a conquistare quel tesoro, pronti a tutto pur di uscirne vincitori.
Giovanni Falcone anni fa scriveva “Segui i soldi, troverai la Mafia”. Oggi possiamo dire che un metodo investigativo simile è applicabile anche nelle guerre. “Segui i soldi, troverai le ragioni del conflitto”. Una guerra per definizione non porta vantaggi, se non per ristrette lobby che guadagnano cifre vertiginose dal divampare del conflitto. È mai possibile condurre un conflitto tanto impegnativo e pagarne i prezzi solo per puro senso della giustizia?


Seguendo i soldi arriviamo pertanto al petrolio e a proposito di petrolio facciamo un salto in avanti nel tempo.
Era il 2000 e Dick Cheney salutava il ruolo da CEO nella Halliburton, azienda petrolifera ed edilizia, dove ricoprì quel ruolo per una parentesi di 5 anni. Con non poca sorpresa, era stato richiamato in politica da George W. Bush (43° presidente degli USA) per ricoprire il ruolo di vicepresidente.


La politica molto diretta sostenuta da Cheney ed eseguita da Bush fu certamente esplicita nel perseguire gli interessi dell’America, mettendo al primo posto il benessere e l’egemonia di quest’ultima. Tanto per avere un’idea, il vicepresidente fu ampiamente criticato per consentire l’uso di metodi poco ortodossi per interrogare eventuali terroristi, come il waterboarding.
Gli anni di questa presidenza furono caratterizzati da una accesa guerra al terrore, al tempo raccontata e giustificata da media americani e mondiali.
Per ora basta vedere come, a invasione ultimata e durante la fase di ricostruzione dell’Iraq, numerose aziende furono adoperate per risanare il paese. Il focus dei vincitori della guerra fu posto su infrastrutture e sul posizionare un governo stabile (le cui debolezze portarono comunque alla formazione di nuove particelle terroristiche, come l’Isis). In particolare in ambito ingegneristico e petrolifero ci fu una tempestiva riorganizzazione.

Tra le aziende responsabili della gestione del petrolio si annoverano curiosamente più aziende americane e, una di queste, fu proprio la Halliburton, sollevando non poche domande su possibili conflitti di interesse.
La quotazione in borsa della Halliburton, di fatto, salì notevolmente dall’inizio del 2000, a seguito del congedo di Cheney.

Del legame tra Halliburton e Cheney durante il proprio mandato si è ampiamente scritto ma con poche conclusioni. Cheney infatti liquidò le sue quote prima di intraprendere la carriera politica. Una cosa tuttavia è certa: il trio Cheney, Halliburton e petrolio iracheno è un mix di elementi sospetto mentre si parla di profitti e guerra.
A corroborare i dubbi sulla genuinità della scelta di attaccare l’Iraq ci fu poi l’errore più grande che si possa fare nel progettare una guerra: usare il pretesto sbagliato.

E tutto questo errore è sintetizzabile in un evento.
Il 5 febbraio 2003 il generale e segretario di stato Colin Powell, si trovò a tenere un discorso davanti il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, denunciando la produzione di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq: pretesto cardine per poi dare il via alla guerra. Durante quel discorso sventolò davanti l’uditorio una fiala di antrace, per indicare la pericolosità della questione. Sicuramente un discorso di impatto, eppure fu un problema: a seguito del conflitto non furono trovate tracce di armi simili dalla squadra di ricognizione dell’ONU.
Il movente del conflitto era falso e si sgretolò come un castello di sabbia mal costruito. Lo stesso Powell fu costretto a rimangiarsi la parola.


La versione ufficiale dichiara che si è trattato di una guerra al terrore e del contenimento di un pericolo, eppure se si legge bene tra gli eventi si notano vantaggi territoriali, economici, relativi al controllo del mercato petrolifero e ai contratti per la ricostruzione, fino al contenimento del potere sovietico in quegli anni sul Medio Oriente.


La verità è stata raccontata? Ci affidiamo ai media con riluttanza. Ma una verità della quale non abbiamo bisogno di conferme è che in conflitti simili si ha una perdita umana incalcolabile e non alleggerita da un gruzzolo di denaro.
Congediamo il lettore con tutti gli spunti che abbiamo ritenuto necessari e con una domanda: e se la stessa dinamica appena raccontata si stesse replicando in Ucraina?

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Francesco Iavarone

Francesco Iavarone è un esperto di apprendimento e da anni lavora nel settore aiutando ogni mese decine di studenti e professionisti. La passione per la ricerca e la scrittura nascono sui banchi di scuola per poi diventare una vocazione vera e propria. Dottore in fisica, ama studiare, indagare e scrivere di temi di nicchia, scrivendo con l’intento di far emergere la verità dai fatti presentati e investigati.

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